domenica 12 febbraio 2017

FESTA!

Se vuoi essere felice per un giorno dai una festa!
Decidiamo di fare molto di più… di esserci, operativi e “sul pezzo”, e di far festa con i piccoli che compiono gli anni in questo mese qualunque, di un anno sconosciuto per i festeggiati… non importa qui è festa! Allora ci si sveglia all’alba, si condivide il primo pensiero del giorno, si mettono mani e teste alla ricerca di soluzioni per convogliare l’acqua in maniera opportuna (perché scrivere “sturare la fossa biologica sostituendo tubi intasati non pare bello!). Riccardo è fuori uso per qualche ora. Cibi non proprio genuini e una notte insonne, lo lasciano/costringono a riposo per metà giornata. Ma dopo un pranzo (a pane e acqua per lui, a “pasta” e broccoli per noi) si torna al lavoro: ricognizione giardino, posa piastrelle per camerate bimbi, pitture colorate per i muri e poi… poi esplode la festa! 


Chi è invitato? Chiunque ci sia con il cuore e lo sguardo libero di chi sa far festa nella semplicità. Ed ecco i piccoli nei loro vestitini migliori! Riccardo è di nuovo attivo, Matteo e il prof. sono due coloratissimi clown caraibici che portano doni (peluche lavati e sistemati a nuova vita) ai piccoli protagonisti. 


C’è Herody con il suo sorriso che vince sulla sua disabilità, c’è l’amico dei vecchi tempi Gesinord che si compiace della sua festa, c’è Angelica, volontaria fiorentina, pasticcera che sforna, nonostante il caldo infernale, quasi 40 grandi torte al cioccolato ed è anche festeggiata. 


Si canta, si danza: esplode l’allegria e la “rivoluzione della gioia” prosegue. Il prof. torna bambinone (a lui forse riesce facile perché lo è, ndr) e intona quei canti che sotto le fronde della natura “contaminata” della Kay, riecheggiano da diverso tempo. È un coro che cambia il cuore di chi ascolta e che rende ciascuno dei presenti ancora più convinto di essere al posto giusto nel momento giusto. Le educatrici “madame” della Kay si scatenano ed è subito sera!


Ancora una volta il tempo è inesorabile, cala la notte tra colorati palloncini che cingono il capo di grandi e piccini; ancora una volta il battito del cuore di ciascuno dei presenti fa eco, la felicità non si contiene. 


Forse siamo qui anche per questo. Germogli che esplodono nella primavera della vita e che rendono consapevoli i “tre piemontesini” che per essere felici è necessario togliere le parole “se solo” e sostituire con le parole “la prossima volta”. E la prossima volta è solo tra qualche ora… il sole sorge di nuovo su Waf Jeremie, manca poco!
prof. G.

ECLISSI

L’aereo atterra quasi rimbalzando sulla pista di Port Au Prince, mentre dai finestrini dell’aeromobile si scorgono i tetti delle migliaia di baracche che si addensano tra le pianure incastrate tra le montagne, in questo anfratto di Caraibi, non proprio da cartolina, non proprio da vacanza al sole. L’odore nauseabondo colpisce le narici, la temperatura dell’aria fa un balzo di quasi 60°C rispetto alla giornata precedente. Il caldo è asfissiante, il volto si imperla di sudore in direzione della costa, dove sorge l’opera della Kay Pe’ Giuss, un tempo enorme discarica della capitale, ora il luogo dove il Bonfa, e diversi suoi studenti, hanno contribuito sulla strada della bellezza.



Ma gli incontri sono sorpresa, meraviglia senza confini, dove un abbraccio è un libro di ricordi, di esperienze e di vissuto… dietro ogni stretta c’è una storia faticosa, una storia di abbandoni, di violenze e di morte. Dietro gli occhi di un piccolo di 4 anni c’è un’infanzia negata fin dai primi momenti, restituita dalle mani e dal cuore generoso di una donna consacrata e di tanti volontari che hanno messo mani, braccia, gambe e bellezza.



Le ore corrono, c’è tanto su cui lavorare e pare che non ci sia mai il tempo necessario: un giardino reclama le cure di questa stagione caraibica ma anche l’orfanotrofio e i suoi oltre 120 piccoli abitanti richiedono attenzione, interventi strutturali urgenti di manutenzione ordinaria e tanto altro. 



Ma inesorabilmente arriva sera. Il sole cede il passo alla luna. Questa è una notte speciale, con gli occhi all’insù, nel buio della bidonville, tra i pochi rumori della notte, accanto a vite allo sbando dei banditi di turno. Pare si attenda un’eclissi. Ma qui nessuno lo sa. La nostra è una conoscenza di notizie lontane, che i nostri telefonini rimbalzano tra i siti più consultati. Nessuno conosce che questo è il momento in cui il sole e la luna si abbracciano proprio come i nostri incontri di oggi. È il momento in cui questo legame straordinario non durerà che pochi istanti, ma sarà abbastanza perché il loro amore continui a crescere, almeno fino a che potranno stare di nuovo insieme ancora una volta, probabilmente più vecchi di qualche anno. È bello vivere un’eclissi all'ombra delle nuvole di queste terre, a distanza di qualche mese, cuore a cuore in una realtà di umanità in ricerca, dove anche il nostro amore per questo mondo e questa gente è cresciuto.
prof. G.

venerdì 10 febbraio 2017

BUFERA

La campanella questa mattina suona molto presto per i due bonfantiniani e per il prof.

Direzione Milano Malpensa, li attende il volo diretto a New York per poi trovare la coincidenza per Port Au Prince, verso le Antille, nel mare che, per molti, è solo quello del pirata Jack Sparrow e della sua “maledetta” e scombinata truppa. Dalla Grande Mela non arrivano buone notizie, 2.800 voli cancellati in poche ore, una bufera di neve in corso e temperature proibitive attendono i tre bonfantiniani.

Ma nulla spaventa! Un ritardo è niente in confronto al desiderio di proseguire il cammino lungo la strada tracciata negli anni passati, in più occasioni, tra gli ultimi di una gigantesca bidonville nello sguardo nuovo che una “rivoluzionaria” suora francescana offre a tutti coloro che mettono le proprie mani a disposizione dell’inatteso. Quasi dieci ore di volo e la Grande Mela si presenta innanzi agli occhi di tre piemontesini intrepidi, abbigliati all’attesa di 40°C caraibici che asciugano anche il sudore nelle terre haitiane. Ma New York non è nei Caraibi, New York è nella bufera! 


L’aereo fatica a trovare la pista di atterraggio tra un vento incredibilmente gelido e un’improvvisa nevicata. Ma non è una città alla stessa latitudine di Napoli?! Ben 19 gradi sotto lo zero percepiti sulla pelle ormai insensibile, poche ore alla ripartenza verso il sud degli Stati Uniti d’America, il centro delle Americhe, l’avamposto degli ultimi: Haiti!. Giusto il tempo di “rendere omaggio” alle fatiche e alle tragedie di questo Paese. Dal Queens verso Manhattan ma fermandosi alla quarantesima strada, ai piedi dell’imponente grattacielo sede del New York Times e via a piedi tra strade innevate, pozze di neve senza fondo che inzuppano le scarpe… ma c’è la voglia di conoscere, di guardare, di scoprire e di respirare una città conosciuta solo attraverso i media, di sfruttare questa occasione unica. 


Si cammina per ore, per strada poco movimento, poche persone, rumori attutiti dall’abbondante coltre nevosa, la giornata è veramente glaciale e i newyorkesi hanno testa! Ma i bonfantiniani senza testa hanno un cuore in movimento e, al chiarore di una luna piena, con le indicazioni generose e sorridenti dei locali, arrivano a Ground Zero. Non c’è nessuno se non qualche uomo impegnato a spargere sale sul ghiaccio dei marciapiedi, l’aria è gelida e lo skyline emoziona e abbraccia tre uomini che osservano sbigottiti il luogo dove il terrore ha interrotto dei percorsi, dei sogni e delle strade. È emozione, raggelata da un vento oceanico che blocca le gambe, fa tremare, disorienta, nel chiarore di questa luna invernale. Qui sono le immagini delle nostre tivù, di quelle due torri, di quei due aerei, di quel giorno… qui sono i colori delle prime pagine dei nostri giornali, qui è la sirena dei camion dei pompieri, qui lo sguardo perso sui volti intrisi di polvere di quell’undici settembre. 

I tre sono ai limiti dell’assideramento ma consapevoli di ricevere un vento speciale, quello che la vela attende intrepida in mezzo al mare. Ora sono pronti a proseguire il loro cammino: questo vento è stato un segno importante, un dono inatteso ma, come scriveva Neruda: “Mi ricevi come il vento la vela. Ti ricevo come il solco il seme”. Hanno ricevuto il dono di uno sguardo speciale, in un luogo intriso di significati, sono preparati ad affrontare la strada di bellezza intrapresa tra gli ultimi di Waf Jeremie ad Haiti, a essere accolti ancora ma ad accogliere abbracci indimenticabili. Sono pronti a restituire l’ossigeno ricevuto a chi fatica a camminare lungo un sentiero. Non potranno toglier loro la salita, non potranno percorrerla accanto a loro tutta la vita ma potranno condividerne dei passi importanti, magari con il fiatone ma con la certezza che la vita è un dono, è un avventura, è meraviglia, è inatteso e la possibilità di condividere un pezzo di cammino nella bellezza è irrinunciabile.

Amava ripetere un filosofo francese: “Traccia ogni solco come se fosse una preghiera, canta ogni versetto come se fosse un seme e scava, scava nel profondo di ogni cosa fino a Dio”.

Ed è di nuovo cielo… verso le Antille!


mercoledì 25 gennaio 2017

HAITI 2017: LA BELLEZZA (CONTINUA) A FARSI STRADA!

Sta per ricominciare l’avventura bonfantiniana in terra caraibica. Dal 9 al 17 febbraio 2017 Matteo Maggiore (5^C), Riccardo Colombo (4^B) con il prof. Guido Rossi saranno ad Haiti, il paese più povero delle Americhe dove vivono oltre dieci milioni di persone prevalentemente di origine africana. La lingua ufficiale è il francese ma, la quasi totalità degli haitiani, parla il creolo, una lingua utilizzata dagli schiavi africani che, nel tempo, è diventata d’uso comune. Nel degrado di queste terre, lavora l’instancabile suor Marcella, classe 1963, missionaria francescana che ha studiato medicina a Milano ma diventa infermiera prestando servizio dapprima in Albania per i profughi kosovari, poi in Brasile in un’isola sperduta del Rio delle Amazzoni e dal 2005 ad Haiti. Suor Marcella è a Waf Jeremie, immensa baraccopoli della capitale Port Au Prince, una delle bidonville più pericolose al mondo.
Waf Jeremie è costruita sulla discarica della capitale, dove le ruspe hanno continuato a recarsi a rovesciare rifiuti anche dopo il disastroso terremoto del 2010. Un giorno d’estate, suor Marcella schierò i suoi bambini che si tenevano per mano davanti alle ruspe per fermarle e le ruspe, finalmente, non tornarono più.
Nella bidonville vi abitano un numero imprecisato di persone (se ne stimano circa 200.000), senza la benché minima condizione igienica: niente acqua, niente latrine, si fa come si può… si usa lo spazio tra le baracche e il mare come latrina a cielo aperto e come immondezzaio e, un paio di volte a settimana, si dà fuoco a tutto!


Dalle pagine di questo blog sarà possibile rimanere aggiornati sulle opere che i bonfantiniani compiranno in terra caraibica: dalla manutenzione del verde creato dal prof. Franco Belloni nelle precedenti esperienze, alla creazione di nuovi spazi verdi e orticoli utili al sostentamento dei piccoli ospiti della struttura, anche scolastica, ai margini dell'immensa bidonville

Ogni giorno parole e immagini di un'esperienza incredibilmente bella! Parole e immagini che testimonieranno quanto la bellezza si sia fatta strada nel tempo, permane e i suoi germogli continuano a diffondersi.

la redazione

martedì 5 aprile 2016

PESO


È il peso di una valigia che mi trascino dietro, lasciando alle mie spalle non solo un luogo ma tanti cuori che con me hanno condiviso un’altra esperienza. Per me è il momento della partenza, quel momento il cui peso si fa sentire nell’abbraccio commosso di Chico che mi chiede di rimandare questo ennesimo addio. Il canto sussurrato nella notte dai bambini, è un saluto in lingua creola ma, ancor più, è un addio speciale di piccole creature che hanno avuto e hanno ancora troppo poco peso nella società haitiana. Le parole mi ricordano che questo addio è un arrivederci e, se non sarà possibile far rincontrare le nostre vite, sarà possibile farlo con le nostre anime in cielo. Ora il peso si sposta negli occhi a trattenere le lacrime per trasformarle in un più adatto sorriso che possa ricambiare ogni bene ricevuto.
Talvolta è un’accezione perlopiù negativa quella del “peso”, come quello della terra che avvolge le radici delle piante faticosamente messe a dimora ad abbellire un angolo di paradiso nella disperazione della bidonville, quella del peso della sofferenza di uomini senza un lavoro, di donne che faticano per portare avanti una famiglia, di piccoli uomini e piccole donne che portano con sé il peso inimmaginabile e ingiustificabile della fame. Un peso che si vorrebbe alleggerire anche solo per qualche ora, qualche giorno, qualche settimana con piccoli gesti che possano far risorgere la speranza nel domani.
Eppure anche io, negli istanti della mia partenza, avverto questo enorme disagio pesante… quasi affezionato alla puzza immonda e insopportabile nell’aria calda e umida del mattino prima del sorgere del sole, unito in qualche modo a questa gente che trasforma uno sguardo circospetto, in uno incuriosito, in uno poi disposto all’incontro... fino a tendere una mano, fino ad esserci, fino a dimostrare un legame di amicizia più indissolubile di tanti altri.


Salgo sul tap-tap mentre la luce arancione dell’alba fa capolino tra le palme della Kay. Il motore si accende, premo sull’acceleratore e si alza la polvere tra i rifiuti sparsi sulla strada. Dietro di me, il mondo che mi ha accolto, mi saluta. Innanzi a me, il sole sembra guidarmi mentre due bambine, nella bidonville, si distinguono con la loro divisa dirette alla scuola… quella che per uno studente del mio Paese è, nella maggior parte dei casi, un peso… un altro peso!
Loro sorridono, riconosco Vivienne, una dei tanti ragazzi che hanno provato l’ebbrezza della mia guida nello spasmodico e incomprensibile traffico della capitale haitiana. Mi saluta, mentre si dirige con un’amichetta verso la scuola, mentre il sole comincia a scaldare e a illuminare i tetti luridi e arrugginiti delle baracche, mentre la strada di fango e polvere si affolla inverosimilmente, mentre un maiale attraversa lo spazio destinato alla strada, mentre la vita riprende. Lei ha la fortuna di avere una scuola, una di quelle scuole costruite dignitosamente dopo il terribile terremoto, una scuola che ben conosco, in cui ho bazzicato come un giullare, cercando di comprendere il “peso della cultura haitiana” tra gli stornelli ripetuti all’inverosimile, l’ordine e la compostezza degli alunni, la proibizione di seguire “il metodo”, ossia l’uso della cinghia e del bastone ma piuttosto le strade della conoscenza, della comprensione e del confronto umano. Ecco perché talvolta son certo che sia facile mettere in piedi una scuola in questi posti. Qui in molti “fanno scuole” pochi però educano veramente.

Ed ecco che i miei pesi si moltiplicano finché le ruote del carrello dell’aereo staccano dal suolo caraibico lasciandomi le immagini di una terra martoriata ma con uomini e donne in cerca di una bellezza che, anche grazie a “piccole presenze”, sta germogliando. Sono convinto che più la vita è vuota più sia pesante e nella Perla delle Antille, qualcuno sta imparando a renderla piena di meraviglia perché pare sia una buona strada per rendere la stessa vita degna di essere vissuta! Orevwa Ayiti!

prof. G.

sabato 2 aprile 2016

SCATTI









GOCCE

Serenamente contemplo il mare che mi sta innanzi, il leggendario Mar dei Caraibi, teatro di tanti set cinematografici ma ancor più rassicurante coperta che accarezza il volto di queste terre. Mai avevo sentito così forti e così belli la voce e il significato dell’acqua che si frange su queste rive. Pare che il mare abbia qualcosa di speciale da dire, qualcosa che non so ancora, qualcosa che forse attende solo il mio orecchio.
Dalle Kay, dalle costruzioni aperte che ospitano i 116 bambini, non giunge alcun rumore, le tenebre della notte consentono alle stelle di bucare l’oscurità e rendere meno timoroso il bianco uomo che sfrutta la brezza della notte per raccontare… una goccia di racconti, tra le gocce d’acqua che bagnano i fiori e le piante messe a dimora tra aiuole di preziosa terra riportata e pietre create dalle sapienti mani degli scalpellini tra le baracche della bidonville. La goccia di latte che beve Dieudoné cullato da Giulia prima di lasciarsi andare alla notte sul proprio lettino coperto dalla zanzariera. La goccia di sudore che imperla la fronte di chi lavora tra terra, pannolini e mille altre necessità di questo paradiso incluso nell’inferno. La goccia di speranza che questi bimbi hanno nel loro cuore, quella che consentirà loro di crescere e di diventare futuro per queste terre.
Matteo sale a bordo del tap tap e con il prof. Belloni e lo spericolato autista Baloonì cerca piante nei vivai caserecci ai bordi della baraccopoli, Giulia collabora con i giovani operatori haitiani per realizzare le aiuole pronte ad accogliere colore, pronte a essere germoglio, pronte a dimostrare quanto la bellezza possa crescere e rimanere.
Ci sono gocce di fatiche che spezzano la propria misura e ti rendono capace di intuire quanto si possa essere felici anche mangiando un cibo semplice, bevendo acqua pura in un gallone lercio e avendo come cuscino il proprio braccio ripiegato, addormentandosi accanto al respiro di una creatura orfana che cerca il tuo respiro e la morbidezza della tua pancia, peraltro vasta veramente!

Anche l’acqua sembra essere simbolo di morbidezza e di debolezza… ma nulla le è pari nel suo modo di opporsi a ciò che è duro, nulla può modificare l’acqua. La debolezza vince sulla forza e la morbidezza sulla durezza. Qui, alla Kay Pe’ Giuss cadendo, la goccia scava  la pietra, non per la sua forza, ma per la sua costanza.

prof. G.