martedì 5 aprile 2016

PESO


È il peso di una valigia che mi trascino dietro, lasciando alle mie spalle non solo un luogo ma tanti cuori che con me hanno condiviso un’altra esperienza. Per me è il momento della partenza, quel momento il cui peso si fa sentire nell’abbraccio commosso di Chico che mi chiede di rimandare questo ennesimo addio. Il canto sussurrato nella notte dai bambini, è un saluto in lingua creola ma, ancor più, è un addio speciale di piccole creature che hanno avuto e hanno ancora troppo poco peso nella società haitiana. Le parole mi ricordano che questo addio è un arrivederci e, se non sarà possibile far rincontrare le nostre vite, sarà possibile farlo con le nostre anime in cielo. Ora il peso si sposta negli occhi a trattenere le lacrime per trasformarle in un più adatto sorriso che possa ricambiare ogni bene ricevuto.
Talvolta è un’accezione perlopiù negativa quella del “peso”, come quello della terra che avvolge le radici delle piante faticosamente messe a dimora ad abbellire un angolo di paradiso nella disperazione della bidonville, quella del peso della sofferenza di uomini senza un lavoro, di donne che faticano per portare avanti una famiglia, di piccoli uomini e piccole donne che portano con sé il peso inimmaginabile e ingiustificabile della fame. Un peso che si vorrebbe alleggerire anche solo per qualche ora, qualche giorno, qualche settimana con piccoli gesti che possano far risorgere la speranza nel domani.
Eppure anche io, negli istanti della mia partenza, avverto questo enorme disagio pesante… quasi affezionato alla puzza immonda e insopportabile nell’aria calda e umida del mattino prima del sorgere del sole, unito in qualche modo a questa gente che trasforma uno sguardo circospetto, in uno incuriosito, in uno poi disposto all’incontro... fino a tendere una mano, fino ad esserci, fino a dimostrare un legame di amicizia più indissolubile di tanti altri.


Salgo sul tap-tap mentre la luce arancione dell’alba fa capolino tra le palme della Kay. Il motore si accende, premo sull’acceleratore e si alza la polvere tra i rifiuti sparsi sulla strada. Dietro di me, il mondo che mi ha accolto, mi saluta. Innanzi a me, il sole sembra guidarmi mentre due bambine, nella bidonville, si distinguono con la loro divisa dirette alla scuola… quella che per uno studente del mio Paese è, nella maggior parte dei casi, un peso… un altro peso!
Loro sorridono, riconosco Vivienne, una dei tanti ragazzi che hanno provato l’ebbrezza della mia guida nello spasmodico e incomprensibile traffico della capitale haitiana. Mi saluta, mentre si dirige con un’amichetta verso la scuola, mentre il sole comincia a scaldare e a illuminare i tetti luridi e arrugginiti delle baracche, mentre la strada di fango e polvere si affolla inverosimilmente, mentre un maiale attraversa lo spazio destinato alla strada, mentre la vita riprende. Lei ha la fortuna di avere una scuola, una di quelle scuole costruite dignitosamente dopo il terribile terremoto, una scuola che ben conosco, in cui ho bazzicato come un giullare, cercando di comprendere il “peso della cultura haitiana” tra gli stornelli ripetuti all’inverosimile, l’ordine e la compostezza degli alunni, la proibizione di seguire “il metodo”, ossia l’uso della cinghia e del bastone ma piuttosto le strade della conoscenza, della comprensione e del confronto umano. Ecco perché talvolta son certo che sia facile mettere in piedi una scuola in questi posti. Qui in molti “fanno scuole” pochi però educano veramente.

Ed ecco che i miei pesi si moltiplicano finché le ruote del carrello dell’aereo staccano dal suolo caraibico lasciandomi le immagini di una terra martoriata ma con uomini e donne in cerca di una bellezza che, anche grazie a “piccole presenze”, sta germogliando. Sono convinto che più la vita è vuota più sia pesante e nella Perla delle Antille, qualcuno sta imparando a renderla piena di meraviglia perché pare sia una buona strada per rendere la stessa vita degna di essere vissuta! Orevwa Ayiti!

prof. G.

sabato 2 aprile 2016

SCATTI









GOCCE

Serenamente contemplo il mare che mi sta innanzi, il leggendario Mar dei Caraibi, teatro di tanti set cinematografici ma ancor più rassicurante coperta che accarezza il volto di queste terre. Mai avevo sentito così forti e così belli la voce e il significato dell’acqua che si frange su queste rive. Pare che il mare abbia qualcosa di speciale da dire, qualcosa che non so ancora, qualcosa che forse attende solo il mio orecchio.
Dalle Kay, dalle costruzioni aperte che ospitano i 116 bambini, non giunge alcun rumore, le tenebre della notte consentono alle stelle di bucare l’oscurità e rendere meno timoroso il bianco uomo che sfrutta la brezza della notte per raccontare… una goccia di racconti, tra le gocce d’acqua che bagnano i fiori e le piante messe a dimora tra aiuole di preziosa terra riportata e pietre create dalle sapienti mani degli scalpellini tra le baracche della bidonville. La goccia di latte che beve Dieudoné cullato da Giulia prima di lasciarsi andare alla notte sul proprio lettino coperto dalla zanzariera. La goccia di sudore che imperla la fronte di chi lavora tra terra, pannolini e mille altre necessità di questo paradiso incluso nell’inferno. La goccia di speranza che questi bimbi hanno nel loro cuore, quella che consentirà loro di crescere e di diventare futuro per queste terre.
Matteo sale a bordo del tap tap e con il prof. Belloni e lo spericolato autista Baloonì cerca piante nei vivai caserecci ai bordi della baraccopoli, Giulia collabora con i giovani operatori haitiani per realizzare le aiuole pronte ad accogliere colore, pronte a essere germoglio, pronte a dimostrare quanto la bellezza possa crescere e rimanere.
Ci sono gocce di fatiche che spezzano la propria misura e ti rendono capace di intuire quanto si possa essere felici anche mangiando un cibo semplice, bevendo acqua pura in un gallone lercio e avendo come cuscino il proprio braccio ripiegato, addormentandosi accanto al respiro di una creatura orfana che cerca il tuo respiro e la morbidezza della tua pancia, peraltro vasta veramente!

Anche l’acqua sembra essere simbolo di morbidezza e di debolezza… ma nulla le è pari nel suo modo di opporsi a ciò che è duro, nulla può modificare l’acqua. La debolezza vince sulla forza e la morbidezza sulla durezza. Qui, alla Kay Pe’ Giuss cadendo, la goccia scava  la pietra, non per la sua forza, ma per la sua costanza.

prof. G.

giovedì 31 marzo 2016

MANI


Una mano, anche vuota, a volte è di grande aiuto. È questo che in qualche modo passa per la testa dei due “nuovi arrivati”. Atterrano nella confusione haitiana in questo inizio della stagione secca, calda e ricca di zanzare. Planano sulla pista della capitale haitiana e incontrano il mondo caraibico nelle sue contraddizioni e nella sua stupefacente confusione. Le domande affollano la loro mente ma è già ora di mettersi al lavoro e, dopo una prima ricognizione di ciò che è necessario con il prof. Belloni, ecco che i bebè della Kay si fanno avanti con la loro consueta sfacciataggine… pappe, biberon e cambio pannolini! Alè! Anche questo richiede l’esperienza haitiana! E allora le mani si mettono in moto e cominciano a produrre il bello facendo germogliare la novità negli occhi dei ragazzi che lavorano per la Kay, lo stupore in quelli di Giulia e Matteo e la frenesia in quelli dei due prof. indaffarati l’uno con le mani tra terra e piante tropicali, l’altro tra pennelli, pannolini e quel che c’è da fare! 
Ed ecco che si osservano le mani sporche di quella terra nera riportata per far nascere la nuova vita, quelle appena lavate per nutrire un bebè, quelle pasticciate dai colori delle figure che stanno nascendo sui muri della Kay, quelle di due uomini per mano, semplicemente due amici: qui si usa così, l’amicizia tra due uomini o tra due donne è forte se passeggiano tenendosi per mano. Stupisce anche questo per la nostra mente relegata ad altri concetti ma tutto sembra prender forma. E allora queste mani sembrano essere il primo passaggio di molte situazioni che spesso passano inosservate ma restano di grande valore: una stretta di mano simbolo di conoscenza, il tendere una mano che è sinonimo di aiuto, una carezza data come dimostrazione di affetto, il tenersi per mano per la paura di perdersi, battere le mani come simbolo di approvazione. E allora quaggiù, tra il mare di Jack Sparrow e la grande America, ci ricordiamo di usare le mani per tutto questo e mai contro qualcun altro, perché quello è l’unico modo negativo che hanno di mostrare qualcosa.

prof. G.

martedì 29 marzo 2016

PORTE

Diceva Confucio che “la via per uscire da un fallimento passa dalla porta. Chissà perché nessuno la prende mai?”. Anche qui a Waf Jeremie, in una mattina di fine marzo, al termine della stagione delle piogge, con un caldo che si fa improvvisamente intenso e umido, le porte mi tornano alla mente.
C’è quella della scuola dei bambini che puntuali alle 5.00 sono nelle docce delle piccole Kay, alle 5.30 sono seduti ad aspettarmi e poco dopo sul tap-tap in direzione delle scuola. Sono tutti con la loro divisa: i maschietti con lunghi pantaloni neri, camicia rigorosamente bianca e cravattino, calzino alto, le femminucce con un grazioso vestitino a quadratini azzurri e bianchi, capelli raccolti e decorati con fasce e piccoli bijou. È bello star con loro mentre mi indicano i luoghi, mi raccontano cosa faranno e fremono per la paura della pagella di fine trimestre che arriverà domani. Chico mi guarda e tiene la testa appoggiata alla mia spalla, poi prende coraggio e in creolo mi domanda come do le botte ai miei studenti in Italia. Non capisco. Poi purtroppo realizzo che il metodo educativo haitiano
prevede che il professore entri in classe con una cinghia e un bastone, e lo possa utilizzare quando lo ritiene opportuno su mani, schiene e gambe degli allievi. Spiego ai grandicelli che non mi piace usare la violenza per insegnare, e in Italia non si usa violenza a scuola, ed è così che Richlo esordisce dicendo: “Quando sarò grande verrò in Italia a studiare!”. Chico è un dodicenne sensibile, affettuoso ed educato, orfano dei genitori, cresciuto tra le lamiere della bidonville con l’anziana nonna per poi essere affidato alle cure di suor Marcella nella Kay. Fa la terza elementare (non perché non sia studioso, ma perché non ha mai avuto la possibilità di studiare regolarmente quando viveva nella baracca). Richlo ha la stessa età di Chico, due sorelle e un fratellino bebè (tutti alla Kay!) lasciati per anni in balìa della solitudine da una madre che, per portare a casa qualche soldo e lavorare, li lasciava fuori dalla porta della baracca dal mattino all’alba sino al tramonto… Richlo fa la prima elementare con buoni risultati ma ha pur sempre dodici anni e sei anni di ritardo sul ciclo regolare di studi. Ma sono due esempi di ragazzini che non sperano che battendo su una parete possa aprirsi una porta ma che piuttosto sfidano il nuovo giorno per crescere anche culturalmente perché sanno che la felicità si può insinuare anche attraverso una porta che non sapevano di aver lasciato aperta, sono consapevoli che lo studio e la cultura li porterà lontani o comunque vicini alla loro gente, utili alle loro terre.
E poi c’è la grande porta/cancello in ferro e rete della Kay Pe’ Giuss dalla quale, poche ore dopo, entra un’anziana donna tra le cui braccia c’è un cucciolo d’uomo in buona salute. Racconta che il padre si è allontanato in barca tre anni or sono e non ha fatto più ritorno, forse perduto tra i mari… ma il bimbo non ha più di un anno (!!!). Racconta che la madre non ha potuto allattarlo ed è morta di stenti… ma il bimbo è cicciotto, nutrito e in buona salute (!!!). Chiede di poter lasciare alla Kay la piccola creatura… ma ALT!, qualcosa non torna! E allora con Nickenson, un giovane educatore, residente tra le baracche di Waf, mi addentro nella bidonville, e varco una porta ottenuta scardinando quella di un wc chimico, pare sia l’ingresso ovest della baraccopoli. Seguo Nickenson tra i vicoletti stretti, polverosi, tra i sassi e le pietre, le lamiere arrugginite sporgenti che delimitano lo spazio di 50/60 centimetri tra le diverse baracche.
Un giovane si pettina capelli cortissimi davanti alla porta della sua baracca utilizzando un vecchio pettine e un frammento di specchio, una donna siede davanti alla porta del suo giaciglio con una grossa bacinella tra le gambe mentre frega poderosamente dei vestitini da bambino, un’anziana mi viene incontro e osserva il “bianco”, un bimbo cerca preziosi nelle mie tasche per conto dei genitori. Ma si arriva alla porta del’anziana con il bambino che ci porta a verificare l’assenza di una madre… 
Varco l’ingresso attraverso un cencio bianco ricamato e sudicio utilizzato come tenda, un tavolo molto piccolo stracolmo di bottiglie e ciotole, un materasso a terra con le molle a vista, un piccolo fornello a carbone… la madre in effetti non c’è ma Nickenson va a sedersi sorridendo vicino alla donna che osserva poco distante, sussurra qualcosa e ancora sorride. Mi spiegherà successivamente di aver capito che quella donna è probabilmente la madre del bambino perché siede distante da una baracca che osserva costantemente e tiene in mano dei vestitini da lavare pur dicendo di non avere bambini… ecco il dramma di questa gente, ecco la disperazione che porta una madre a “cedere” il proprio figlio perché non si ha più voglia di vederlo crescere, di coccolarlo, di passare del tempo con lui… meglio lasciarlo nella struttura della suora…

Ma il piano”fallisce” e la porta della Kay questa volta rimane chiusa… non sarebbe un giusto segnale, ma non sarà possibile “far finta di niente” perché pur chiudendo questa porta a chiunque bussi alla porta ci si deve ricordare di non chiedere “Chi sei?” ma piuttosto di invitarlo a sedersi e mangiare. 

prof. G.

domenica 27 marzo 2016

NOTTE DI GERMOGLI

È una notte di stelle, di quelle che basta allungare una mano e toccarne una talmente il cielo è limpido e l’oscurità è pressoché totale. La luna sembra farsi da parte, nella sua fase calante, lasciando il suo riflesso nel Mar dei Caraibi calmo e luccicante. È la notte di Pasqua su Haiti. Anche la bidonville sembra più tranquilla del solito. Le bande musicali (e non solo purtroppo…!) che si riversano sulle strade, da dopo il carnevale fino alla fine della Settimana Santa, hanno sospeso i loro scontri rituali. Nelle notti trascorse i disordini, le risse tra ubriachi e violenti, le piccole rivolte degli abitanti della baraccopoli, hanno fatto da contorno a questi rituali religiosi misti al tradizionale e locale voodoo. Bande rivali che lanciano ciò che si chiama pwen ovvero il canto di scandalo, le allegorie delle disgrazie umane quotidiane (come se ci fosse necessità di rimarcarle!), di tutto ciò di cui abitualmente non si parla o di cui, addirittura, non si può parlare.
La lingua creola non riesco ancora a comprenderla bene, anzi capisco molto poco ma con i bambini vige la “lingua universale” dei gesti e dei segni che facilitano ogni comprensione. E allora cerco di tradurre, comprendere quel canto, quella nenia, quella cantilena che dice: “la famiglia di Asefi racconta che Asefi ha buttato via un bebè di sette mesi. I bambini sono ricchezza!!! Parlate!”.
Difficile comprendere se non si conosce Haiti, la storia di questi popoli ridotti nel passato alla schiavitù nelle piantagioni di zucchero della Perla delle Antille che, ribellatosi, costituirono un primo esempio di repubblica nera. Difficile comprendere le parole di un canto che racconta l’assurdità di interrompere una gravidanza al settimo mese, atto disperato contro il corpo e le regole della società giacché i bambini sono “ricchezza”… ma per chi? Loro che corrono nudi tra la spazzatura e la terra polverosa, loro che attendono seduti fuori dalla baracca in lamiera il ritorno degli adulti per ore e ore, loro che si accucciano in una pozzanghera fetida per bere, loro che strappano il cibo dalle fauci dei maiali…

Ecco allora che questo periodo di tensioni sociali sfocia nella calma di questa notte. Dalle colorate Kay dell’orfanotrofio giunge solo qualche lamento dei bebè per l’ora della pappa, ma tutto tace, illuminato dal chiarore della notte che riflette anche sul verde rigoglioso che circonda le costruzioni. Tutto passa in secondo piano: la luna si defila, la confusione tra le baracche sembra placarsi, il clima di insicurezza e di instabilità di questo grande “quartiere” (oltre 200.000 abitanti, ndr) sembra svanire, le bande rivali “stanno al loro posto”, sembra quasi una notte di “demilitarizzazione della mente”, una di quelle notti in cui la “pace” sembra imporsi, in cui ognuno “avverte”, “sente”, “ascolta”…
Sono un bianco vulnerabile che osserva tra le maglie della rete che mi divide dalla bidonville questa realtà miserabile, che lancia uno sguardo al cielo stellato per cercare speranza e conforto e che, cominciando da oggi, vuole rinnovare il suo impegno a trattare chiunque come se stesse per morire entro la notte successiva, elargendo cura, gentilezza e comprensione di cui sono capace, senza pensare ad alcuna ricompensa. Ecco, che disperso in questo angolo di mondo, mi convinco che la mia vita non sarà più la stessa, non potrò mai dire di aver vissuto veramente se non avrò mai fatto qualcosa per qualcuno che non potrà mai ripagarmi.

Le fatiche di un giorno donate a questa terra sono il germoglio giusto nelle periferie di questo nostro mondo.

prof. G.

venerdì 25 marzo 2016

AQUILONI

Capita che spostandosi sul cassone del vecchio tap tap per le strade della baraccopoli, diretti verso quelle più alte della strana città, capitale della “perla dei Caraibi”, si osservino gli sguardi dei bambini che mi stanno accompagnando. Capita immaginare cosa passi loro per la testa. Ma capita anche di vederli estasiati quando  alla svolta verso la collina di Petionvillem urlano: “kap! Guido kap!”. E allora anche io rivolgo i miei occhi al cielo, nell’ora del tramonto e scopro decine di aquiloni fatti da buste di plastica, legnetti incurvati e malmessi, guidati da un filo di quelli che si trovano attaccati ai sacchi dell’immondizia per legarli, prima che il servizio di nettezza urbana passi a ritirarlo a domicilio. Qui la nettezza urbana è fatta di container stracolmi, di strade fumanti (perché “è bene” dar fuoco a tutto, compresa la spazzatura!), di animali che vi abitano, di umanità alla ricerca.
Ma lo sguardo verso questi aquiloni molto semplici, ma pur sempre coloratissimi, mi fa pensare che l’immaginazione di questi bambini è proprio come l’aquilone più alto su cui si possa volare. Loro accompagnano il bianco grassoccio nella quotidianità haitiana, hanno gli occhi pieni di gioia quando seguono il volo degli aquiloni che si innalzano alto sopra i tetti delle baracche e tra il verde eccezionalmente raro del parco che circonda l’ambasciata vaticana.


Oggi sembra che il cilindro del mondo faccia uscire da sé un asso di vento, un re di aquiloni, un fante di sguardi di Ibiscus, un dieci di risate e gioia dei bambini, un settebello di grande serenità.

Passano i minuti e il sole scompare all’orizzonte, anche gli aquiloni sembrano svanire nel nulla proprio come questi bimbi che di giorno in giorno chiedono di innalzarsi e, chi ha la fortuna di essere accanto a loro, ha il prezioso compito di dover insegnare a volare attraverso l’esempio cercando di salvarli dalle cadute, maneggiando con cura quel filo esile che si dipana tra le mani. Loro possono cadere più e più volte, e allora tocca a te ripararli e innalzarli ancora nella brezza del tramonto. E così impareranno a volare, ti chiederanno sempre più filo e per ogni pezzetto che si dipanerà dalle tua mani, il tuo cuore si riempirà di gioia ma anche di consapevole tristezza. Via via che l’aquilone si allontanerà, avvertirai che il fragile filo che vi unisce prima o poi si spezzerà e quel colorato e semplice aquilone sarà libero di volare nel cielo della vita. Ecco forse la metafora del mio compito qui, un pezzetto di filo che assolverà un compito piacevole e gioioso per poi augurarsi che il vento che dividerà sarà sempre propizio.

Ecco spuntare le stelle della notte tra i falò di rifiuti della bidonville, uomini intenti a farsi la barba nei piccolissimi locali improvvisati tra baracche e confusione. Ecco che nel buio qualcuno fa festa, altri fanno ritorno, altri si coricano, altri si spingono, altri fanno cerchio attorno a una scena raccapricciante di due persone a terra tra pugni, urla e insulti… il cuore è come un aquilone, c’è più gusto a farlo volare vicino ai cavi dell’alta tensione.


prof. G.

BAMBINI IN CATTEDRA

È l’alba e il tap tap solca le strade di spazzatura e polvere popolate da capre e maiali allo stato brado, calpestate da decine di migliaia di uomini e donne che vanno non si sa dove, tornano da chissà quale posto, lavoro, vissuto: è un altro giorno a Waf Jeremie, un caldo giorno caraibico sferzato da un vento forte che porta con sé spazzatura di ogni genere, una gran polvere che si infila tra le narici che odorano i profumi del mercato del pesce a qualche metro dal porto.

La natura è nel pieno del suo vigore ma i giorni di preparazione alla Pasqua sono un momento di "stop" per tutti: i muratori che stanno edificando le nuove strutture della Kay non lavorano, il medico e le infermiere della Klinik si occupano dei piccoli ospiti dell’orfanotrofio e la clinica rimane chiusa, la scuola e l’asilo sono deserti ma le voci dei piccoli abitanti della Kay si fanno sentire tra il verde prato e i colori che in questo angolo di paradiso sembrano dipinti a mano. È un continuo contrasto tra la bellezza della Kay che nasce e cresce per accogliere, e la tremenda realtà della baraccopoli dove si ammassano le lamiere, i rifiuti e i liquami scorrono in rivoli numerosi e maleodoranti. È un contrasto veder nascere e
allo stesso tempo sapere che una donna viene rapita, violentata e ridotta a brandelli da scellerati banditi che non hanno alcun rispetto per la vita, neppure per la propria. Stringo a me i bebè al risveglio, gioco con i più grandicelli, seguo nei momenti di raccoglimento e preghiera i bimbi che, attraverso le strade malridotte, salgono con il tap tap verso il monte del quartiere alto di Petionville, verso l’ambasciata vaticana a cui loro hanno accesso grazie a un nunzio apostolico, di origini irlandesi, che li accoglie tra le braccia della Chiesa. Li seguo lungo questo cammino, loro si inginocchiano a pregare e stupiscono per il rispetto, la compostezza e il silenzio che dimostrano nei loro vestiti più belli (seppur sgualciti e molto semplici).

Sono ancora una volta ai banchi di scuola della vita dove sono i più piccoli a insegnarmi qualcosa, dove sembrano quasi ricordarmi che la preghiera non può cambiare le cose rispetto a te, ma di sicuro cambia te rispetto alle cose.

Ecco quelli che dovrebbero essere i contorni di un progetto scolastico fatto di terra e natura ma che invece sono il cuore pulsante di questa intuizione di creare bellezza.

Proseguo il mio compito di preparare la "strada" (ma soprattutto il "duro lavoro") per Giulia e Matteo. Mancano pochi giorni e con don Franco arriveranno a metter mano anche al piccolo orticello della Kay. I bambini intanto mi ricordano di non calpestare le aiuole, di non strappare i fiori, ricordarsi di risparmiare un po' di acqua per le piante e raccogliere le foglie cadute... sarà mica passato don Franco a dare istruzione precise??? Domanda inutile! Sicuro che è passato, sicuro che ha istruito gli adulti, certo che chi ha capito e intuito l'importanza di tutto questo non ha più di 11 anni e dimostra una coscienza attenta e scrupolosa per un "nuovo futuro".

prof. G.

mercoledì 23 marzo 2016

L'ALBA IN UNA POZZANGHERA

È la stagione delle piogge nella “perla delle Antille”, in quel lembo di terra caraibica dagli elevati contrasti cromatici e umani. Apro la strada in solitaria al progetto di quest’anno, con una settimana di anticipo, cercando di fare in modo che tutto sia pronto per l’arrivo di don Franco, di Giulia e Matteo. 
La pioggia cade copiosa all’ora del tramonto e al risveglio, con la luna che fa capolino al canto del gallo, alle quattro e mezza della mattina, anche la bidonville di Waf Jeremie, sembra rinata. La polvere scompare, i colori vivaci delle lamiere luccicano anche al buio, le voci piano piano prendono possesso di quest’aria meno fetida della sera prima ma pur sempre calda, le zanzare cercano riparo tra i pertugi più nascosti delle mura della clinica. È di nuovo Haiti e il Bonfa, o almeno un suo rappresentante, torna nella terra che lo ha visto impegnato anche sotto altre forme nel passato. La luce rivela la bellezza che si è fatta strada grazie al prodigioso intervento del prof. Belloni e degli alunni che si sono succeduti negli scorsi anni per dare un tocco tutto bonfantiniano a questo angolo di paradiso che è la Kay: un orfanotrofio, un asilo, una scuola elementare, una clinica… o più semplicemente una casa accogliente per i piccoli disperati di Waf Jeremie, immensa baraccopoli con altissimo tasso di criminalità e miseria diffusa.
È in una pozzanghera, tra gli ammassi di lamiere della bidonville, che avviene il miracolo; è in un po’ di acqua putrida che qualcosa si muove! È un corpicino di un bimbo di non più di un mese, vispo, rosso in volto, appisolato… ma abbandonato nel peggiore dei modi...
Giunge alla Kay nel verde splendente dei prati, tra i colorati dormitori, i fiori sgargianti delle Bouganville, i grandi Ibiscus e decine di altre essenze locali piantumate da due o tre anni. Non si sa da dove venga, chi sia, come si chiami questa creatura. Si sa che c’è e questo basta per spalancare le porte anche a lui. La sua vita ha incrociato quella di suor Marcella, degli educatori e dei 112 bimbi ospitati. E il miracolo avviene mentre Roseline, una delle educatrici, sceglie il meglio per lui, nonostante non sia particolarmente benestante, sceglie di prendersene cura: Joseph ora ha una mamma premurosa e attenta, dal cuore grande!


Lo coccola, lo accudisce, lo nutre e lui continua a dormire riconoscendo un bene in quelle braccia che lo stringono e lo accolgono, in quelle mani che lo lavano e lo cambiano e che gli offrono un biberon pieno di latte. È questo il contorno di un piccolo/grande/meraviglioso progetto scolastico che cerca di conservare questa “bellezza”, con le competenze di chi le mani nella terra ha scelto di metterle già da qualche anno, per far sì che spunti il germoglio giusto anche in queste estreme periferie del mondo.

Il Bonfa ci prova, il Bonfa c’è e non può che farsi “prendere” in tutto e per tutto da questa bellezza che permane!


Il poeta francese De Musset diceva che per riuscire nel mondo è necessario prendere in considerazione tre massime: vedere è sapere, volere è potere, osare è avere! E qui la forza di volontà è solo un muscolo da allenare! E allora via che si va: alla terra! 

prof. G.

domenica 13 marzo 2016

LA STORIA DEL PROGETTO CARAIBICO DEL BONFA


FEBBRAIO 2014 - "L'ORTO CARAIBICO" 
Alessandro, Davide, Fabio e il professor don Franco Belloni arrivano ad Haiti nel febbraio 2014 direttamente dai banchi e dal giardino spirituale creato nella Sede di Novara del Bonfa. A Waf Jeremie sono chiamati a impiantare il progetto di un Orto Caraibico e far crescere frutta e verdura per il sostentamento della Kay Pe' Giuss con i suoi piccoli ospiti. Con loro l'inseparabile Loko, giovane haitiano, dal pollice molto poco verde! In poco meno di due settimane nascono aiuole seminate a fagioli, zucche, pomodori, melanzane e fagiolini...! Un primo esperimento per capire come e dove dar vita ad un vero e proprio orto che possa aiutare realmente la Kay a mantenersi.

GENNAIO 2015 - "LA BELLEZZA SI FA STRADA"
Continua il progetto per aiutare il Vilaj Italyen di Waf Jeremie. E la "bellezza si fa strada" rendendo le opere della Kay ancor più belle anche grazie a Diego, Giacomo e Vittorio, tre studenti del quinto anno della Sede di Novara accompagnati dal prof. don Franco Belloni e dal collega prof. Guido Rossi. Tutti al lavoro per seminare, piantare, pulire, organizzare e appassionare i piccoli e gli operatori, per far crescere le bellezze della creazione in un pezzo perduto di terra nel mondo.

MARZO 2016 - "LA BELLEZZA PERMANE"
Pronti a ripartire con Matteo e Giulia, il professore Belloni con il professor Rossi della Sede di Novara per continuare ciò che è stato avviato negli scorsi anni per mantenere la bellezza creata nella bidonville caraibica.

sabato 5 marzo 2016

LA BELLEZZA PERMANE 2016

Sta per ricominciare l’avventura di alcuni bonfantiniani in terra caraibica, ad Haiti, il paese più povero delle Americhe dove vivono oltre dieci milioni di persone prevalentemente di origine africana. La lingua ufficiale è il francese ma, la quasi totalità degli haitiani, parla il creolo, una lingua utilizzata dagli schiavi africani che, nel tempo, è diventata d’uso comune. Nel degrado di queste terre, lavora l’instancabile suor Marcella, classe 1963, missionaria francescana che ha studiato medicina a Milano ma diventa infermiera prestando servizio dapprima in Albania per i profughi kosovari, poi in Brasile in un’isola sperduta del Rio delle Amazzoni e dal 2005 ad Haiti. Suor Marcella è a Waf Jeremie, immensa baraccopoli della capitale Port Au Prince, una delle bidonville più pericolose al mondo.
Waf Jeremie è costruita sulla discarica della capitale, dove le ruspe hanno continuato a recarsi a rovesciare rifiuti anche dopo il disastroso terremoto del 2010. Un giorno d’estate, suor Marcella schierò i suoi bambini che si tenevano per mano davanti alle ruspe per fermarle e le ruspe, finalmente, non tornarono più.
Nella bidonville vi abitano circa 200.000 persone, senza la benché minima condizione igienica: niente acqua, niente latrine, si fa come si può… si usa lo spazio tra le baracche e il mare come latrina a cielo aperto e come immondezzaio e, un paio di volte a settimana, si dà fuoco a tutto!



Dalle pagine di questo blog sarà possibile rimanere aggiornati sulle opere che i bonfantiniani compiranno in terra caraibica: dalla manutenzione del verde creato dal prof. Franco Belloni nelle precedenti due esperienze, alla creazione di nuovi spazi verdi e orticoli utili al sostentamento dei piccoli ospiti della struttura, anche scolastica, ai margini dell'immensa bidonville

Ogni giorno parole e immagini di un'esperienza incredibilmente bella! Parole e immagini che testimonieranno quanto la bellezza si sia fatta strada nel tempo e ora permane!

la redazione

UN'ESTATE IN BIDONVILLE

Il Boeing 767 dell’American Airlines effettua il decollo dall’aeroporto PAP e l’uomo bianco, venuto da un lontano indefinito, lascia le terre haitiane che lo hanno accolto, a loro modo, per più di un mese. Gli occhi non smettono di inumidirsi mirando le indefinite strade della capitale Port Au Prince ma, ancor più, quelle migliaia di baracche disordinate in cui è cresciuta una consapevolezza diversa, in cui quello stesso uomo è cambiato ancora ma ha capito di non aver concluso un cammino ma semplicemente di averne incrociati tanti altri per proseguire ancora più fortificato e consapevole nella sua vita.

Tutto ha avuto inizio nel gennaio 2015, grazie al mio lavoro di insegnante in questa scuola, ho avuto l’opportunità di far sperimentare a tre miei studenti un modo nuovo di “donare”, attraverso la realizzazione di un giardino caraibico all’interno di un asilo (di certo non similare alle nostre strutture!). Un’esperienza forte in una delle baraccopoli più pericolose al mondo, a contatto con decine di bambini orfani, o in difficoltà, accolti dalle braccia di Suor Marcella, missionaria francescana che opera in Haiti, ancor prima del devastante terremoto del 2010. Non è stato facile il ritorno in Italia in febbraio, ma non è stato per nulla difficile dire il mio “si!” alla successiva richiesta di Suor Marci di tornare alla Kay Pe’ Giuss, la struttura nella bidonville di Waf Jeremie che ospita 111 bambini orfani o in serie difficoltà familiari e di salute.
Non è altrettanto facile raccontare ora un’esperienza lunga oltre un mese che segna profondamente ma, a tratti, impedisce di descrivere ciò che gli occhi hanno visto, il cuore ha provato e quello che le mani hanno combinato giorno per giorno. Lo farò a mio modo per ringraziare chi, con la propria generosità, anche nella nostra scuola, ha voluto sostenere il presente e il futuro di questa gente.

La sveglia suona alle 4.50 del mattino nell’alloggio fatto di mattoni e cartongesso all’interno della baraccopoli di Waf Jeremie. Waf è un’immensa bidonville o baraccopoli come la si voglia chiamare, un quartiere più finemente ma, in realtà, è un ammasso di umanità e povertà, un insieme di baracche di lamiere e stracci, una fogna a cielo aperto abitata e vissuta da oltre 200.000 mila persone. Ci si sveglia madidi di sudore per la temperatura e l’umidità che raggiunge anche picchi dell’ottanta per cento, su una branda bollente, protetti solamente da una zanzariera per prevenire le punture, peraltro inevitabili, dei fastidiosi insetti presenti. La notte è trascorsa tra il vociare degli abitanti della baraccopoli oltre il muro che ci divide, una musica simil caraibica emessa da vecchie e fatiscenti casse audio che distorcono fastidiosamente il suono, cani e gatti che si azzuffano per aggiudicarsi un boccone tra la spazzatura disseminata ovunque, gechi che sibilano nello stanzone tra la polvere trasportata dal vento del giorno precedente e i topi che qua e la tentano di banchettare. Ma trascorre anche nell’udire scariche di mitra e poca distanza, colpi di arma da fuoco mentre qualcuno muore tra scontri di banditi, per aggiudicarsi il controllo dell’una o dell’altra zona dell’immensa bidonvilleCi si sveglia senza paura, forse incoscientemente o quasi sicuramente capendo che si è lì per dire un “SI” incondizionato al nuovo giorno. Nel buio della notte si sale sul tap tap (una sorta di furgone con il cassone perlopiù aperto con due panche in legno). Mi raggiungono i piccoli della Kay che sbrandano dal letto per… accompagnarmi alla Messa! Ebbene c’è chi sceglie di andarci nonostante la giovanissima età, c’è chi sceglie di accompagnarmi, c’è chi sceglie di attraversare le pozzanghere di piscio e i cumuli di spazzatura fumante, i falò di copertoni per ricavarne una minima quantità di ferro da rivendere. Il tap tap corre su una strada disconnessa senza alcuna regola di circolazione, rallenta davanti a voragini causate dall’acquazzone tropicale della sera prima, poi si riprende e via che va verso il capannone dove, alle 6 in punto, si celebra l’unica Messa della giornata, protetti da un possibile attacco di gang criminali, preservati dal caldo insopportabile del giorno. Per strada uomini e donne urinano dove capita: un uomo apre la porta della sua baracca e con in mano un vecchio spazzolino da denti e una tolla di vernice riempita di acqua, non di certo potabile, si lava i denti e sputa a terra o in direzione di quei bianchi da sempre malvisti. Giovani donne portano grandi ceste sulle loro teste con banane, semi, riso e prodotti indefiniti per recarsi alla strada-mercato più vicina dove qualcuno passa la notte dormendo a terra tra topi, scarafaggi e animali randagi, per non perdere il posto e vendere quel poco che si riesce a vendere per sopravvivere un giorno in più. L’odore è indescrivibile, prende solo le tue narici e se ne impossessa, violentando a tal punto quel senso da lasciarlo inutilizzabile per le piccole finezze. Il fumo dei pneumatici carbonizzati riempie l’aria, mentre il traffico di vecchi mezzi diventa incredibilmente confusionario: suonano i clacson, un uomo corre con tondini in ferro lunghi 4 metri al centro della presunta strada per trasportarli al vicino cantiere, una donna perde il carico dalla sua cesta e viene assalita da altri che prendono tutto ciò che è rovinosamente caduto e se ne impossessano, decine di moto corrono con 3, 4 o anche 5 persone a bordo, una sorta di mototaxi molto diffusa per le strade della capitale. È confusione, è follia, è sconcerto ma solo per il primo giorno. Poi diventa un percorso fatto da un osservatore che sta diventando un uomo con loro, un uomo tra loro, diretto al quotidiano incontro con Qualcuno che può rafforzare e incitare quel “SI” detto al risveglio. La chiesa è un edificio povero e, gli haitiani che partecipano alla funzione, vestono in lungo, spalle rigorosamente coperte, capo chino… si prega e lo si fa con estremo, semplice decoro e rispetto. Do la mia mano a Chico, undici anni, capelli raccolti in ordinate treccine, il più grande ospite della Kay: un ragazzino vissuto fino a 9 mesi fa, nella realtà della bidonville: orfano di genitori, seguito da una nonna speciale che lo ha voluto affidare alle mani di Suor Marcella per dargli un futuro. Gli occhi di Chico mi accompagnano, mi proteggono e mi fanno sentire a mio agio. La sua mano mi accompagna al banco della chiesa, la sua voce mi scandisce le parole in creolo così che anche io possa imparare e capire. Il suo rispetto è esempio. Si genuflette fino a terra e mi invita a farlo. Durante la funzione, con i suoi amici, anche di 5 anni, non ha un attimo di scompostezza… nessuno di loro osa parlare, disturbare, partecipando alla preghiera, ai canti e alla liturgia! Dove sono?! Comincio a far confronti con l’Italia… non li faccio che è meglio! Meglio non confrontare, meglio guardare, imparare e vivere! Chico con i suoi occhi profondi mi guida davvero passo a passo.

Si rientra alla Kay, un solo cancello in ferro mi divide dalla realtà di Waf Jeremie. Dietro a questo cancello sorgono lunghi prefabbricati coloratissimi, senza finestre ma con dei buchi geometricamente ben disposti: le Kay! Ogni Kay è abitata e vissuta dalle generazioni di piccole vite che Suor Marci ha accolto e accoglie ogni giorno: i bebè, i bimbi disabili, le bimbe in età prescolare, i maschietti cresciutelli e poi la zona cucina, la clinica/infermeria e le piscine (grossi vasconi riempiti con qualche dito di acqua che ogni giorno riempie le grandi botti). È si niente acqua! Niente energia elettrica se non grazie a un generatore e alcune moderne fonti di energia rinnovabile donati all’opera della Suora.

Tutto è più complicato alla Kay Pe’ Giuss, o forse tutto è diverso. Tutto non è alla mia misura.

Suor Marcella mi ha chiamato qui per contribuire alla realizzazione e alla gestione di un Kan d’Eté o più semplicemente di un Campo Estivo di animazione per bambini dai 4 agli 11 anni accompagnato da altri volontari italiani e da figure haitiane tra cui il direttore della scuola, Etienne, 22 anni, laurea (haitiana!) come educatore e conoscenza del francese. Nickenson responsabile dei professori della scuola, 32 anni, prossimo alle nozze, abitante di Waf Jeremie e Luke, 28 anni, bandito presumibilmente armato della bidonville, che mi stupisce giorno per giorno nella sua straordinaria capacità di voler bene ai piccoli, nel voler star con loro, nell’essere creativo quando si tratta di realizzare canti, scenografie o piccoli lavoretti. Ma come un bandito con i bambini? Si, un bimbo di Waf cresciuto tra bande rivali, cresciuto nel puzzo e nel disagio ma sempre ordinato e profumato. Ora un uomo, forse anche malato di quelle malattie da cui ahinoi non si sfugge facilmente, ma con una grinta speciale che si fa conoscere e che infiamma chiunque ne faccia conoscenza. Un bandito a Waf uccide, un bandito a Waf chiede il pizzo, un bandito di Waf protegge abitanti e territorio di Waf. Luke è un bandito ma ancor prima è un uomo che è disposto a stravolgere il proprio sguardo, osservando un altro stile, collaborando con uno sconosciuto, investendo le proprie risorse in un mese di lavoro…
È difficile spiegare anche questo per iscritto, è ancor più difficile condividere alcune scelte e alcuni punti di vista ma Haiti va vissuta per essere capita e, chi come me, lo ha fatto per più di un mese e mezzo non è ancora nella posizione di potersi permettere di dare un giudizio…
La giornata è un susseguirsi di eventi ordinari e straordinari scandita prima faticosamente poi sempre più necessariamente dalla preghiera.
La fantasia si scatena e per chi ha un’esperienza di animazione con i bambini e i ragazzi tutto sembra scontato ma… non lo è per niente! Nasce un tema… siamo ai Caraibi, a venti metri dal mare di Jack Sparrow e della note serie de “La Maledizione della Prima Luna”, allora creiamo equipaggi, facciamo ciurme di pirati, elogiamo il timoniere, premiamo il pirata e nominiamo un mozzo cuciniere per distribuire la razione di riso e fagioli quotidiana. E tutto viene da sé, abbracciato da chi tutto questo lo ha nel cuore e proviene da diverse parti d’Italia e con me si allea e si mette in discussione, accerchiato da una ciurma festante con occhi gioiosi che ti dice “grazie” quando realizzi con del cartone un galeone gigante, con delle lamiere la nave che li porterà al largo, con stoffa, tempere e pennelli le isole a tema dove costruire, crescere, giocare e dare un nuovo orizzonte.
Non c’è nulla all’apparenza ma poi un sasso diventa un pezzo di un mosaico grandioso e quando lo si colora diventa una pepita per i tesori, un pezzo di cartone diventa un tassello del grande ponte del veliero, la stoffa si compone e forma le colorate vele, le bottiglie di plastica diventano strumenti musicali e ogni cosa prende forma, colore, iniziativa… Etienne compone una canzone in creolo a dir poco entusiasmante, Luke si veste a suo modo da pirata per incitare la sua equipe, Nickenson urla e incalza il suo equipaggio a volte stanco, altre disordinato… è una magia? No, è una realtà fatta di piccole cose condivise che insieme diventano grandi.
Il sole intanto comincia a nascondersi dietro la linea infinita dello stupendo mare che attira la mia attenzione propria in quest’ora. I bimbi rientrano nelle proprie Kay: Richlo e Chico prendono con sé i più piccoli, Mirtha senza una gamba, persa nel crollo della sua baracca nel terremoto, si leva la protesi e corre felice aggrappandosi al collo di qualcuno ed esprimendo la sua creatività. John Kery dal basso dei suoi 4 anni mi chiede il bacetto del saluto e mi regala la sua preziosa congiuntivite che combatto a suon di collirio ma, chissenefrega, l’abbraccio di John Kery vale molto di più!!! Gesinord è stanco e fa i capricci (anche i bambini haitiani rompono!) e Isaac non vuole andare a mangiare, allora ti abbraccia, si nasconde e tenta di attaccare la scabbia a qualcuno ma pare non ce la faccia (fortunatamente!) nonostante tutti gli abbraccioni!
Allora si ordina quanto distribuito per i grandi spazi aperti di un asilo speciale, fatto di grandi stanzoni aperti alla vista del mare… e della latrina pubblica della bidonville: la spiaggia! Quando si intravede qualcosa di bello a Port Au Prince subito c’è un odore che rovina tutto o un quadro (tipo la latrina!) che non fortifica di certo una bellezza che si vuol far strada!
E che fare al tramonto? Dieudoné mi aspetta. Nove mesi, conosciuto quando ne aveva soltanto tre e pesava poco meno di due chili. Orfano di mamma. Ho passato il mio tempo libero a cercare di nutrirlo lo scorso inverno e sembra che i suoi sei chili di adesso siano un regalo stupendo. Mi sorride, giù di latte e pappetta, cambio pannolino per evidenti scarichi naturali, di cui ometto la consistenza, e via che si va… insieme andiamo a trovare Jowensley, quattro mesi, orfano di padre con la madre gravemente malata come lui: ha l’AIDS. Non basta è idrocefalo, la sua testa pesa cinque volte il suo corpo. Ha i piedini torti. Forse è ipovedente. Insomma non proprio un bimbo fortunato… ma sorride quando, tenendolo tra le braccia, gli carezzo le guanciotte. Accanto a lui Katherline otto anni di amore, disabile e su una sedia a rotelle. Lei spinge la sua sedia e allatta con un biberon Herody, due anni, idrocefalo i cui occhietti sembra dicano solamente “grazie”. Un gesto che ripaga ogni sforzo alla Kay, ogni disagio nella bidonville. E poi Stevenson, spastico, 5 anni, con un sorriso che quando prendo il suo corpo e lo immergo nella piscinetta con 40 gradi al sole, si fa fragorosamente rumoroso e allora chissenefrega di tutto lo schifo di quest’acqua apparentemente pulita, buttati Guido, buttati con lui e sorridi rumorosamente senza pietà! E così si fa!
E poi c’è chi all’improvviso, mentre mangia le sue pappine, ha una serie di convulsioni. Interviene Safira, l’infermiera, e prontamente anche le mani di Suor Marcella (che ha studiato 5 anni Medicina ed è infermiera). C’è chi rimane atterrito tra noi volontari, chi cerca di distrarre gli altri bimbi, chi prega ma c’è soprattutto Qualcuno che non vuole che Redson se ne vada. Si riprende, cammina per un’oretta con i volontari che lo prendono per mano e cantano tutto il repertorio di canzoncine per bambini. Redson ce la fa! E intanto una donna arriva dalla baraccopoli: deve partorire. In infermeria sto dando da mangiare al piccolo Dieudoné, intanto ci si prepara alla nascita… l’importante è accogliere una donna che arriva da Waf Jeremie, dalla sua baracca sorta su una discarica tra il mare e un fiumiciattolo di acqua nera. Lei che viene da una baraccopoli dove non esistono fognature, acqua ed elettricità, dove il colera è lo spazzolone periodico di vite, tanto da far intervenire le Nazioni Unite per limitare il diffondersi dei focolai. Lei che proviene da una baracca di cui non sarà neppure proprietaria, di cui dovrà pagare un affitto e magari un pizzo alle gang criminali per non essere ammazzata. Suor Marcella la accoglie, non è ancora ora di dare alla luce la piccola, ma è ora di far sentire il potere di un abbraccio, il calore di una porta aperta, la sicurezza di qualcuno che si prenda cura di lei. È tempo: è tempo di guardare negli occhi questa ragazza e di capire che ha solo 14 anni, che ha paura. È tempo di soffrire con lei un travaglio lungo una notte. È tempo di addormentarsi e al risveglio vederla sorridente mentre ti dice “la mia piccola, ecco la mia piccola! Grazie!”I “grazie” arrivano inaspettati qui e colpiscono come mai hanno fatto altre parole. Chico mi dice “grazie” per aver costruito un galeone, Richlo per il mio impegno al Kan d’Eté perché a lui piace proprio tanto, questa ragazza per aver passato pochi attimi con lei (ed essermi addormentato nel momento clou!), e poi ci sono quei “grazie” letti negli occhi di chi la voce non usa ma che ti spiazzano e ti lasciano gli occhi umidi non certo per la congiuntivite.

Fuori intanto la vita di Waf prosegue e c’è chi in preda alla follia crede che un’anziana sia una strega che faccia malefici contro le donne che devono partorire… lui attende un figlio dalla sua donna… lui è folle, lui ha paura, lui prende di forza la donna, la cosparge di benzina e le dà fuoco. Lei resiste, lui no. Prende un machete e la decapita davanti a tutti brandendo la sua testa e ringraziando un presunto dio per esser riuscito a estirpare il male di Waf.
Ed ecco che si vacilla, ed ecco che il “SI” detto al mattino comincia ad essere messo in discussione.

Ma questa è un’avventura umana in cui so di essere provocato a giocarmi nella sfida a questa realtà, al caldo, ai ritmi non proprio facili, ai rapporti tesi magari in relazione alla stanchezza. È una sfida che apre un cammino, quello stesso cammino di cui abbiamo bisogno per essere vivi, per essere uomini.
Un cammino in cui si segue e in cui il ritmo del passo non lo si dà ma ci si fida di Chi lo dà.
Un cammino in cui si cade per stanchezza e richiede talvolta una pausa per ribadire le ragioni, riflettere se ci si può accontentare di elemosinare la risposta al nostro bisogno immediato ripiegati sulla nostra pancia o se siamo veramente liberi, capaci di alzare lo sguardo verso l’infinito e desiderare il cielo per lasciarsi muovere.

Non otterrò mai tutte le risposte razionali alle mie domande ma qui continuo a seminare certezza.
Forse è quello di cui il cuore dell’uomo ha bisogno: la certezza di essere amati. E alla Kay Pe’ Giuss la certezza cresce, ci si guarda intorno e si è certi di una presenza che accade nella bellezza degli spazi, nella vivacità dei bambini accolti, nella vita di coloro che fanno fatica a vivere ma crescono ogni giorno di più, accade se non barattiamo la nostra libertà ma la manteniamo viva e pronta a scattare.

Ci sarebbe molto altro ma ciò che conta è che ogni mia misura è stata stravolta e sono pronto a dire un “SI” ad ogni nuovo giorno che seguirà.

prof. G.