martedì 29 marzo 2016

PORTE

Diceva Confucio che “la via per uscire da un fallimento passa dalla porta. Chissà perché nessuno la prende mai?”. Anche qui a Waf Jeremie, in una mattina di fine marzo, al termine della stagione delle piogge, con un caldo che si fa improvvisamente intenso e umido, le porte mi tornano alla mente.
C’è quella della scuola dei bambini che puntuali alle 5.00 sono nelle docce delle piccole Kay, alle 5.30 sono seduti ad aspettarmi e poco dopo sul tap-tap in direzione delle scuola. Sono tutti con la loro divisa: i maschietti con lunghi pantaloni neri, camicia rigorosamente bianca e cravattino, calzino alto, le femminucce con un grazioso vestitino a quadratini azzurri e bianchi, capelli raccolti e decorati con fasce e piccoli bijou. È bello star con loro mentre mi indicano i luoghi, mi raccontano cosa faranno e fremono per la paura della pagella di fine trimestre che arriverà domani. Chico mi guarda e tiene la testa appoggiata alla mia spalla, poi prende coraggio e in creolo mi domanda come do le botte ai miei studenti in Italia. Non capisco. Poi purtroppo realizzo che il metodo educativo haitiano
prevede che il professore entri in classe con una cinghia e un bastone, e lo possa utilizzare quando lo ritiene opportuno su mani, schiene e gambe degli allievi. Spiego ai grandicelli che non mi piace usare la violenza per insegnare, e in Italia non si usa violenza a scuola, ed è così che Richlo esordisce dicendo: “Quando sarò grande verrò in Italia a studiare!”. Chico è un dodicenne sensibile, affettuoso ed educato, orfano dei genitori, cresciuto tra le lamiere della bidonville con l’anziana nonna per poi essere affidato alle cure di suor Marcella nella Kay. Fa la terza elementare (non perché non sia studioso, ma perché non ha mai avuto la possibilità di studiare regolarmente quando viveva nella baracca). Richlo ha la stessa età di Chico, due sorelle e un fratellino bebè (tutti alla Kay!) lasciati per anni in balìa della solitudine da una madre che, per portare a casa qualche soldo e lavorare, li lasciava fuori dalla porta della baracca dal mattino all’alba sino al tramonto… Richlo fa la prima elementare con buoni risultati ma ha pur sempre dodici anni e sei anni di ritardo sul ciclo regolare di studi. Ma sono due esempi di ragazzini che non sperano che battendo su una parete possa aprirsi una porta ma che piuttosto sfidano il nuovo giorno per crescere anche culturalmente perché sanno che la felicità si può insinuare anche attraverso una porta che non sapevano di aver lasciato aperta, sono consapevoli che lo studio e la cultura li porterà lontani o comunque vicini alla loro gente, utili alle loro terre.
E poi c’è la grande porta/cancello in ferro e rete della Kay Pe’ Giuss dalla quale, poche ore dopo, entra un’anziana donna tra le cui braccia c’è un cucciolo d’uomo in buona salute. Racconta che il padre si è allontanato in barca tre anni or sono e non ha fatto più ritorno, forse perduto tra i mari… ma il bimbo non ha più di un anno (!!!). Racconta che la madre non ha potuto allattarlo ed è morta di stenti… ma il bimbo è cicciotto, nutrito e in buona salute (!!!). Chiede di poter lasciare alla Kay la piccola creatura… ma ALT!, qualcosa non torna! E allora con Nickenson, un giovane educatore, residente tra le baracche di Waf, mi addentro nella bidonville, e varco una porta ottenuta scardinando quella di un wc chimico, pare sia l’ingresso ovest della baraccopoli. Seguo Nickenson tra i vicoletti stretti, polverosi, tra i sassi e le pietre, le lamiere arrugginite sporgenti che delimitano lo spazio di 50/60 centimetri tra le diverse baracche.
Un giovane si pettina capelli cortissimi davanti alla porta della sua baracca utilizzando un vecchio pettine e un frammento di specchio, una donna siede davanti alla porta del suo giaciglio con una grossa bacinella tra le gambe mentre frega poderosamente dei vestitini da bambino, un’anziana mi viene incontro e osserva il “bianco”, un bimbo cerca preziosi nelle mie tasche per conto dei genitori. Ma si arriva alla porta del’anziana con il bambino che ci porta a verificare l’assenza di una madre… 
Varco l’ingresso attraverso un cencio bianco ricamato e sudicio utilizzato come tenda, un tavolo molto piccolo stracolmo di bottiglie e ciotole, un materasso a terra con le molle a vista, un piccolo fornello a carbone… la madre in effetti non c’è ma Nickenson va a sedersi sorridendo vicino alla donna che osserva poco distante, sussurra qualcosa e ancora sorride. Mi spiegherà successivamente di aver capito che quella donna è probabilmente la madre del bambino perché siede distante da una baracca che osserva costantemente e tiene in mano dei vestitini da lavare pur dicendo di non avere bambini… ecco il dramma di questa gente, ecco la disperazione che porta una madre a “cedere” il proprio figlio perché non si ha più voglia di vederlo crescere, di coccolarlo, di passare del tempo con lui… meglio lasciarlo nella struttura della suora…

Ma il piano”fallisce” e la porta della Kay questa volta rimane chiusa… non sarebbe un giusto segnale, ma non sarà possibile “far finta di niente” perché pur chiudendo questa porta a chiunque bussi alla porta ci si deve ricordare di non chiedere “Chi sei?” ma piuttosto di invitarlo a sedersi e mangiare. 

prof. G.

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