Il Boeing 767 dell’American Airlines effettua il decollo dall’aeroporto PAP e l’uomo bianco, venuto da un lontano
indefinito, lascia le terre haitiane che lo hanno accolto, a loro modo, per più
di un mese. Gli occhi non smettono di inumidirsi mirando le indefinite strade
della capitale Port Au Prince ma, ancor più, quelle migliaia di baracche
disordinate in cui è cresciuta una consapevolezza diversa, in cui quello stesso
uomo è cambiato ancora ma ha capito di non aver concluso un cammino ma
semplicemente di averne incrociati tanti altri per proseguire ancora più
fortificato e consapevole nella sua vita.
Tutto
ha avuto inizio nel gennaio 2015, grazie al mio lavoro di insegnante in questa
scuola, ho avuto l’opportunità di far sperimentare a tre miei studenti un modo
nuovo di “donare”, attraverso la realizzazione di un giardino caraibico
all’interno di un asilo (di certo non similare alle nostre strutture!).
Un’esperienza forte in una delle baraccopoli più pericolose al mondo, a
contatto con decine di bambini orfani, o in difficoltà, accolti dalle braccia
di Suor Marcella, missionaria francescana che opera in Haiti, ancor prima del
devastante terremoto del 2010. Non è stato facile il ritorno in Italia in
febbraio, ma non è stato per nulla difficile dire il mio “si!” alla
successiva richiesta di Suor Marci di tornare alla Kay Pe’ Giuss, la struttura
nella bidonville di Waf Jeremie che ospita 111 bambini orfani
o in serie difficoltà familiari e di salute.
Non
è altrettanto facile raccontare ora un’esperienza lunga oltre un mese che segna
profondamente ma, a tratti, impedisce di descrivere ciò che gli occhi hanno
visto, il cuore ha provato e quello che le mani hanno combinato giorno per
giorno. Lo farò a mio modo per ringraziare chi, con la propria generosità,
anche nella nostra scuola, ha voluto sostenere il presente e il futuro di
questa gente.
La
sveglia suona alle 4.50 del mattino nell’alloggio fatto di mattoni e
cartongesso all’interno della baraccopoli di Waf Jeremie. Waf è un’immensa bidonville o
baraccopoli come la si voglia chiamare, un quartiere più finemente ma, in
realtà, è un ammasso di umanità e povertà, un insieme di baracche di lamiere e
stracci, una fogna a cielo aperto abitata e vissuta da oltre 200.000 mila
persone. Ci si sveglia madidi di sudore per la temperatura e l’umidità che
raggiunge anche picchi dell’ottanta per cento, su una branda bollente, protetti
solamente da una zanzariera per prevenire le punture, peraltro inevitabili, dei
fastidiosi insetti presenti. La notte è trascorsa tra il vociare degli abitanti
della baraccopoli oltre il muro che ci divide, una musica simil caraibica emessa
da vecchie e fatiscenti casse audio che distorcono fastidiosamente il suono,
cani e gatti che si azzuffano per aggiudicarsi un boccone tra la spazzatura
disseminata ovunque, gechi che sibilano nello stanzone tra la polvere
trasportata dal vento del giorno precedente e i topi che qua e la tentano di
banchettare. Ma trascorre anche nell’udire scariche di mitra e poca distanza,
colpi di arma da fuoco mentre qualcuno muore tra scontri di banditi, per
aggiudicarsi il controllo dell’una o dell’altra zona dell’immensa bidonville. Ci
si sveglia senza paura, forse incoscientemente o quasi sicuramente capendo che
si è lì per dire un “SI” incondizionato al nuovo giorno. Nel buio
della notte si sale sul tap tap (una sorta di furgone con il
cassone perlopiù aperto con due panche in legno). Mi raggiungono i piccoli
della Kay che sbrandano dal letto per… accompagnarmi alla Messa! Ebbene c’è chi
sceglie di andarci nonostante la giovanissima età, c’è chi sceglie di
accompagnarmi, c’è chi sceglie di attraversare le pozzanghere di piscio e i
cumuli di spazzatura fumante, i falò di copertoni per ricavarne una minima
quantità di ferro da rivendere. Il tap tap corre su una strada
disconnessa senza alcuna regola di circolazione, rallenta davanti a voragini
causate dall’acquazzone tropicale della sera prima, poi si riprende e via che
va verso il capannone dove, alle 6 in punto, si celebra l’unica Messa della
giornata, protetti da un possibile attacco di gang criminali,
preservati dal caldo insopportabile del giorno. Per strada uomini e donne
urinano dove capita: un uomo apre la porta della sua baracca e con in mano un
vecchio spazzolino da denti e una tolla di vernice riempita di acqua, non di
certo potabile, si lava i denti e sputa a terra o in direzione di quei bianchi
da sempre malvisti. Giovani donne portano grandi ceste sulle loro teste con
banane, semi, riso e prodotti indefiniti per recarsi alla strada-mercato più
vicina dove qualcuno passa la notte dormendo a terra tra topi, scarafaggi e
animali randagi, per non perdere il posto e vendere quel poco che si
riesce a vendere per sopravvivere un giorno in più. L’odore è
indescrivibile, prende solo le tue narici e se ne impossessa, violentando a tal
punto quel senso da lasciarlo inutilizzabile per le piccole finezze. Il fumo
dei pneumatici carbonizzati riempie l’aria, mentre il traffico di vecchi mezzi
diventa incredibilmente confusionario: suonano i clacson, un uomo corre con
tondini in ferro lunghi 4 metri al centro della presunta strada per
trasportarli al vicino cantiere, una donna perde il carico dalla sua cesta e
viene assalita da altri che prendono tutto ciò che è rovinosamente caduto e se
ne impossessano, decine di moto corrono con 3, 4 o anche 5 persone a bordo, una
sorta di mototaxi molto diffusa per le strade della capitale. È
confusione, è follia, è sconcerto ma solo per il primo giorno. Poi
diventa un percorso fatto da un osservatore che sta diventando un uomo con
loro, un uomo tra loro, diretto al quotidiano incontro con Qualcuno che può
rafforzare e incitare quel “SI” detto al risveglio. La chiesa è un edificio
povero e, gli haitiani che partecipano alla funzione, vestono in lungo, spalle
rigorosamente coperte, capo chino… si prega e lo si fa con estremo, semplice
decoro e rispetto. Do la mia mano a Chico, undici anni, capelli raccolti in
ordinate treccine, il più grande ospite della Kay: un ragazzino vissuto fino a
9 mesi fa, nella realtà della bidonville: orfano di genitori,
seguito da una nonna speciale che lo ha voluto affidare alle mani di Suor
Marcella per dargli un futuro. Gli occhi di Chico mi accompagnano, mi
proteggono e mi fanno sentire a mio agio. La sua mano mi accompagna al banco
della chiesa, la sua voce mi scandisce le parole in creolo così che anche io
possa imparare e capire. Il suo rispetto è esempio. Si genuflette
fino a terra e mi invita a farlo. Durante la funzione, con i suoi amici, anche
di 5 anni, non ha un attimo di scompostezza… nessuno di loro osa parlare,
disturbare, partecipando alla preghiera, ai canti e alla liturgia! Dove sono?!
Comincio a far confronti con l’Italia… non li faccio che è meglio! Meglio
non confrontare, meglio guardare, imparare e vivere! Chico con i suoi
occhi profondi mi guida davvero passo a passo.
Si
rientra alla Kay, un solo cancello in ferro mi divide dalla realtà di Waf
Jeremie. Dietro a questo cancello sorgono lunghi prefabbricati coloratissimi,
senza finestre ma con dei buchi geometricamente ben disposti: le Kay! Ogni Kay
è abitata e vissuta dalle generazioni di piccole vite che Suor Marci ha accolto
e accoglie ogni giorno: i bebè, i bimbi disabili, le bimbe in età prescolare, i
maschietti cresciutelli e poi la zona cucina, la clinica/infermeria e le
piscine (grossi vasconi riempiti con qualche dito di acqua che ogni giorno
riempie le grandi botti). È si niente acqua! Niente energia elettrica se non
grazie a un generatore e alcune moderne fonti di energia rinnovabile donati
all’opera della Suora.
Tutto
è più complicato alla Kay Pe’ Giuss, o forse tutto è diverso. Tutto non
è alla mia misura.
Suor
Marcella mi ha chiamato qui per contribuire alla realizzazione e alla gestione
di un Kan d’Eté o più semplicemente di un Campo Estivo di
animazione per bambini dai 4 agli 11 anni accompagnato da altri volontari
italiani e da figure haitiane tra cui il direttore della scuola, Etienne, 22
anni, laurea (haitiana!) come educatore e conoscenza del francese. Nickenson
responsabile dei professori della scuola, 32 anni, prossimo alle nozze,
abitante di Waf Jeremie e Luke, 28 anni, bandito presumibilmente armato della bidonville,
che mi stupisce giorno per giorno nella sua straordinaria capacità di voler
bene ai piccoli, nel voler star con loro, nell’essere creativo quando si tratta
di realizzare canti, scenografie o piccoli lavoretti. Ma come un bandito con i
bambini? Si, un bimbo di Waf cresciuto tra bande rivali, cresciuto nel puzzo e
nel disagio ma sempre ordinato e profumato. Ora un uomo, forse anche malato di
quelle malattie da cui ahinoi non si sfugge facilmente, ma con
una grinta speciale che si fa conoscere e che infiamma chiunque ne
faccia conoscenza. Un bandito a Waf uccide, un bandito a Waf chiede il
pizzo, un bandito di Waf protegge abitanti e territorio di Waf. Luke è un
bandito ma ancor prima è un uomo che è disposto a stravolgere il
proprio sguardo, osservando un altro stile, collaborando con uno
sconosciuto, investendo le proprie risorse in un mese di lavoro…
È
difficile spiegare anche questo per iscritto, è ancor più difficile condividere
alcune scelte e alcuni punti di vista ma Haiti va vissuta per essere capita e,
chi come me, lo ha fatto per più di un mese e mezzo non è ancora nella
posizione di potersi permettere di dare un giudizio…
La
giornata è un susseguirsi di eventi ordinari e straordinari scandita prima
faticosamente poi sempre più necessariamente dalla preghiera.
La
fantasia si scatena e per chi ha un’esperienza di animazione con i bambini
e i ragazzi tutto sembra scontato ma… non lo è per niente! Nasce
un tema… siamo ai Caraibi, a venti metri dal mare di Jack Sparrow e della note
serie de “La Maledizione della Prima Luna”, allora creiamo
equipaggi, facciamo ciurme di pirati, elogiamo il timoniere, premiamo il pirata
e nominiamo un mozzo cuciniere per distribuire la razione di riso e fagioli
quotidiana. E tutto viene da sé, abbracciato da chi tutto questo lo ha nel
cuore e proviene da diverse parti d’Italia e con me si allea e si mette in
discussione, accerchiato da una ciurma festante con occhi gioiosi che ti dice
“grazie” quando realizzi con del cartone un galeone gigante, con delle lamiere
la nave che li porterà al largo, con stoffa, tempere e pennelli le isole a tema
dove costruire, crescere, giocare e dare un nuovo orizzonte.
Non
c’è nulla all’apparenza ma poi un sasso diventa un pezzo di un mosaico
grandioso e quando lo si colora diventa una pepita per i tesori, un pezzo di
cartone diventa un tassello del grande ponte del veliero, la stoffa si compone
e forma le colorate vele, le bottiglie di plastica diventano strumenti musicali
e ogni cosa prende forma, colore, iniziativa… Etienne compone una canzone in
creolo a dir poco entusiasmante, Luke si veste a suo modo da pirata per
incitare la sua equipe, Nickenson urla e incalza il suo equipaggio
a volte stanco, altre disordinato… è una magia? No, è una realtà fatta
di piccole cose condivise che insieme diventano grandi.
Il
sole intanto comincia a nascondersi dietro la linea infinita dello stupendo
mare che attira la mia attenzione propria in quest’ora. I bimbi rientrano nelle
proprie Kay: Richlo e Chico prendono con sé i più piccoli, Mirtha senza una
gamba, persa nel crollo della sua baracca nel terremoto, si leva la protesi e
corre felice aggrappandosi al collo di qualcuno ed esprimendo la sua
creatività. John Kery dal basso dei suoi 4 anni mi chiede il bacetto del saluto
e mi regala la sua preziosa congiuntivite che combatto a suon di collirio ma,
chissenefrega, l’abbraccio di John Kery vale molto di più!!! Gesinord è stanco
e fa i capricci (anche i bambini haitiani rompono!) e Isaac non vuole andare a
mangiare, allora ti abbraccia, si nasconde e tenta di attaccare la scabbia a
qualcuno ma pare non ce la faccia (fortunatamente!) nonostante tutti gli
abbraccioni!
Allora
si ordina quanto distribuito per i grandi spazi aperti di un asilo speciale,
fatto di grandi stanzoni aperti alla vista del mare… e della latrina pubblica
della bidonville: la spiaggia! Quando si intravede qualcosa di
bello a Port Au Prince subito c’è un odore che rovina tutto o un quadro (tipo
la latrina!) che non fortifica di certo una bellezza che si vuol far strada!
E
che fare al tramonto? Dieudoné mi aspetta. Nove mesi,
conosciuto quando ne aveva soltanto tre e pesava poco meno di due chili. Orfano
di mamma. Ho passato il mio tempo libero a cercare di nutrirlo lo scorso
inverno e sembra che i suoi sei chili di adesso siano un regalo stupendo. Mi
sorride, giù di latte e pappetta, cambio pannolino per evidenti scarichi
naturali, di cui ometto la consistenza, e via che si va… insieme andiamo a
trovare Jowensley, quattro mesi, orfano di padre con la madre gravemente malata
come lui: ha l’AIDS. Non basta è idrocefalo, la sua testa pesa cinque volte il
suo corpo. Ha i piedini torti. Forse è ipovedente. Insomma non proprio un bimbo
fortunato… ma sorride quando, tenendolo tra le braccia, gli carezzo le
guanciotte. Accanto a lui Katherline otto anni di amore, disabile e su una
sedia a rotelle. Lei spinge la sua sedia e allatta con un biberon Herody, due
anni, idrocefalo i cui occhietti sembra dicano solamente “grazie”. Un gesto che
ripaga ogni sforzo alla Kay, ogni disagio nella bidonville. E poi
Stevenson, spastico, 5 anni, con un sorriso che quando prendo il suo corpo e lo
immergo nella piscinetta con 40 gradi al sole, si fa fragorosamente rumoroso e
allora chissenefrega di tutto lo schifo di quest’acqua apparentemente pulita,
buttati Guido, buttati con lui e sorridi rumorosamente senza pietà! E così si
fa!
E
poi c’è chi all’improvviso, mentre mangia le sue pappine, ha una serie di
convulsioni. Interviene Safira, l’infermiera, e prontamente anche le mani di
Suor Marcella (che ha studiato 5 anni Medicina ed è infermiera). C’è chi rimane
atterrito tra noi volontari, chi cerca di distrarre gli altri bimbi, chi prega
ma c’è soprattutto Qualcuno che non vuole che Redson se ne vada. Si riprende,
cammina per un’oretta con i volontari che lo prendono per mano e cantano tutto
il repertorio di canzoncine per bambini. Redson ce la fa! E intanto una donna
arriva dalla baraccopoli: deve partorire. In infermeria sto dando da mangiare
al piccolo Dieudoné, intanto ci si prepara alla nascita… l’importante è accogliere
una donna che arriva da Waf Jeremie, dalla sua baracca sorta su una
discarica tra il mare e un fiumiciattolo di acqua nera. Lei che viene da una
baraccopoli dove non esistono fognature, acqua ed elettricità, dove il colera è
lo spazzolone periodico di vite, tanto da far intervenire le Nazioni Unite per
limitare il diffondersi dei focolai. Lei che proviene da una baracca di cui non
sarà neppure proprietaria, di cui dovrà pagare un affitto e magari un pizzo
alle gang criminali per non essere ammazzata. Suor Marcella la
accoglie, non è ancora ora di dare alla luce la piccola, ma è ora di far
sentire il potere di un abbraccio, il calore di una porta aperta, la sicurezza
di qualcuno che si prenda cura di lei. È tempo: è tempo di guardare negli occhi
questa ragazza e di capire che ha solo 14 anni, che ha paura. È tempo di soffrire
con lei un travaglio lungo una notte. È tempo di addormentarsi e al risveglio
vederla sorridente mentre ti dice “la mia piccola, ecco la mia piccola!
Grazie!”. I “grazie” arrivano inaspettati qui e colpiscono
come mai hanno fatto altre parole. Chico mi dice “grazie” per aver costruito un
galeone, Richlo per il mio impegno al Kan d’Eté perché a lui piace proprio
tanto, questa ragazza per aver passato pochi attimi con lei (ed essermi
addormentato nel momento clou!), e poi ci sono quei “grazie” letti negli
occhi di chi la voce non usa ma che ti spiazzano e ti lasciano gli occhi umidi
non certo per la congiuntivite.
Fuori
intanto la vita di Waf prosegue e c’è chi in preda alla follia crede che
un’anziana sia una strega che faccia malefici contro le donne che devono
partorire… lui attende un figlio dalla sua donna… lui è folle, lui ha paura,
lui prende di forza la donna, la cosparge di benzina e le dà fuoco. Lei
resiste, lui no. Prende un machete e la decapita davanti a
tutti brandendo la sua testa e ringraziando un presunto dio per esser riuscito
a estirpare il male di Waf.
Ed
ecco che si vacilla, ed ecco che il “SI” detto al mattino comincia ad essere
messo in discussione.
Ma
questa è un’avventura umana in cui so di essere provocato a giocarmi nella sfida
a questa realtà, al caldo, ai ritmi non proprio facili, ai rapporti tesi magari
in relazione alla stanchezza. È una sfida che apre un cammino, quello stesso
cammino di cui abbiamo bisogno per essere vivi, per essere uomini.
Un
cammino in cui si segue e in cui il ritmo del passo non lo si dà ma ci si fida
di Chi lo dà.
Un
cammino in cui si cade per stanchezza e richiede talvolta una pausa per
ribadire le ragioni, riflettere se ci si può accontentare di elemosinare la
risposta al nostro bisogno immediato ripiegati sulla nostra pancia o se siamo
veramente liberi, capaci di alzare lo sguardo verso l’infinito e desiderare il
cielo per lasciarsi muovere.
Forse
è quello di cui il cuore dell’uomo ha bisogno: la certezza di essere amati. E alla Kay Pe’ Giuss la certezza cresce, ci si
guarda intorno e si è certi di una presenza che accade nella bellezza degli
spazi, nella vivacità dei bambini accolti, nella vita di coloro che fanno
fatica a vivere ma crescono ogni giorno di più, accade se non barattiamo la
nostra libertà ma la manteniamo viva e pronta a scattare.
Ci
sarebbe molto altro ma ciò che conta è che ogni mia misura è stata
stravolta e sono pronto a dire un “SI” ad ogni nuovo giorno che
seguirà.
prof. G.
Eccezionale Guido!
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