È il peso di una valigia che mi trascino dietro, lasciando alle mie spalle non solo un luogo ma tanti cuori che con me hanno condiviso un’altra esperienza. Per me è il momento della partenza, quel momento il cui peso si fa sentire nell’abbraccio commosso di Chico che mi chiede di rimandare questo ennesimo addio. Il canto sussurrato nella notte dai bambini, è un saluto in lingua creola ma, ancor più, è un addio speciale di piccole creature che hanno avuto e hanno ancora troppo poco peso nella società haitiana. Le parole mi ricordano che questo addio è un arrivederci e, se non sarà possibile far rincontrare le nostre vite, sarà possibile farlo con le nostre anime in cielo. Ora il peso si sposta negli occhi a trattenere le lacrime per trasformarle in un più adatto sorriso che possa ricambiare ogni bene ricevuto.
Talvolta
è un’accezione perlopiù negativa quella del “peso”, come quello della terra che
avvolge le radici delle piante faticosamente messe a dimora ad abbellire un
angolo di paradiso nella disperazione della bidonville, quella del peso della
sofferenza di uomini senza un lavoro, di donne che faticano per portare avanti
una famiglia, di piccoli uomini e piccole donne che portano con sé il peso
inimmaginabile e ingiustificabile della fame. Un peso che si vorrebbe
alleggerire anche solo per qualche ora, qualche giorno, qualche settimana con
piccoli gesti che possano far risorgere la speranza nel domani.
Eppure
anche io, negli istanti della mia partenza, avverto questo enorme disagio
pesante… quasi affezionato alla puzza immonda e insopportabile nell’aria calda
e umida del mattino prima del sorgere del sole, unito in qualche modo a questa
gente che trasforma uno sguardo circospetto, in uno incuriosito, in uno poi
disposto all’incontro... fino a tendere una mano, fino ad esserci, fino a
dimostrare un legame di amicizia più indissolubile di tanti altri.
Salgo sul tap-tap mentre la luce arancione dell’alba fa capolino tra le palme della Kay. Il motore si accende, premo sull’acceleratore e si alza la polvere tra i rifiuti sparsi sulla strada. Dietro di me, il mondo che mi ha accolto, mi saluta. Innanzi a me, il sole sembra guidarmi mentre due bambine, nella bidonville, si distinguono con la loro divisa dirette alla scuola… quella che per uno studente del mio Paese è, nella maggior parte dei casi, un peso… un altro peso!
Loro
sorridono, riconosco Vivienne, una dei tanti ragazzi che hanno provato l’ebbrezza
della mia guida nello spasmodico e incomprensibile traffico della capitale
haitiana. Mi saluta, mentre si dirige con un’amichetta verso la scuola, mentre
il sole comincia a scaldare e a illuminare i tetti luridi e arrugginiti delle
baracche, mentre la strada di fango e polvere si affolla inverosimilmente,
mentre un maiale attraversa lo spazio destinato alla strada, mentre la vita
riprende. Lei ha la fortuna di avere una scuola, una di quelle scuole costruite
dignitosamente dopo il terribile terremoto, una scuola che ben conosco, in cui
ho bazzicato come un giullare, cercando di comprendere il “peso della cultura
haitiana” tra gli stornelli ripetuti all’inverosimile, l’ordine e la compostezza
degli alunni, la proibizione di seguire “il metodo”, ossia l’uso della cinghia
e del bastone ma piuttosto le strade della conoscenza, della comprensione e del
confronto umano. Ecco perché talvolta son certo che sia facile mettere in piedi
una scuola in questi posti. Qui in molti “fanno scuole” pochi però educano
veramente.
Ed
ecco che i miei pesi si moltiplicano finché le ruote del carrello dell’aereo
staccano dal suolo caraibico lasciandomi le immagini di una terra martoriata ma
con uomini e donne in cerca di una bellezza che, anche grazie a “piccole
presenze”, sta germogliando. Sono convinto che più la vita è vuota più sia
pesante e nella Perla delle Antille, qualcuno sta imparando a renderla piena di
meraviglia perché pare sia una buona strada per rendere la stessa vita degna di
essere vissuta! Orevwa Ayiti!
prof. G.
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